JINJER – King of Everything

by Giuseppe Turchi

Dopo due album e tanta fatica per guadagnare popolarità oltre i confini della madrepatria, gli ucraini Jinjer approdano alla Napalm Records e reclamano con prepotenza un posto nella scena musicale internazionale. King of Everything sostituisce l’EP previsto per la fine del 2015 e si presenta come la naturale evoluzione del precedente Cloud Factory.

La band, trainata dalla possente voce di Tatiana Shmailyuk, dimostra ancora una volta grandissima qualità tecnica e complica ulteriormente le partiture dei propri pezzi. Escludendo i ritornelli, l’utilizzo sapiente di pause, cambi di tempo e variazioni di genere fa sì che ogni brano sia imprevedibile, pur mantenendo una buona orecchiabilità nell’insieme. Il mescolarsi di Groove, Djent, Death col più classico Metalcore viene incontro anche all’ascoltatore meno avvezzo e lo disorienta solo il minimo indispensabile.

Questo, che può esser considerato uno dei maggiori pregi delle composizioni, non permette però ai Jinjer di rimediare al peccato originale commesso da tutte le band a loro affini: il ricorso a stereotipi di ritornelli in voce pulita. È infatti un vizio costante quello di racchiudere piccoli universi musicali nelle strofe e nei bridge, per poi appiattirsi su di un cantato melodico la cui unica colpa è quella di essere poco originale. I Jinjer provano comunque a giocare con la voce di Tatiana, la quale mostra una versatilità che lascia presagire ottimi margini di manovra per i lavori futuri. La vocalist si conferma capace di passare dal growl al jazz (vedi Beggars’ Dance) con invidiabile naturalezza, e persino di aggiungere un certo pathos alle note più morbide e sussurrate (vedi I Speak Astronomy).

Per la parte più metalcore, spiccano nella tracklist Captain Clock, Words of Wisdom e Under the Dome, mentre sono I Speak Astronomy e Pisces i migliori brani in cui prevale il canto pulito. Molti accusano questi ultimi di portare solo ulteriore confusione in un album già di per sé poco chiaro a livello concettuale, quando in realtà il loro posizionamento all’interno della tracklist pare decisamente tattico, di respiro. In particolare Pisces, dove fanno il loro ingresso le clean guitars, rappresenta una buona chiusura per il disco. Difficile, invece, interpretare la scelta di inserire Beggars’ Dance in coda, un simpaticissimo pezzo jazz che perde la connessione stilistica col resto dell’album.

Nel complesso, King of Everything è un disco ottimamente prodotto e di grande impatto tecnico. Scorrevole nella sua complicatezza, prova a essere sperimentale e inetichettabile nel genere pur non riuscendo a svincolarsi dalle tendenze contemporanee. A dimostrazione di ciò, tutte le tracce si mantengono su una qualità fruitiva medio-buona, ma nessuna di esse si lascia individuare come “pezzo memorabile”.

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