IN FLAMES – Colony: benvenuti nel nuovo mondo

by Riccardo Basso
colony

Ventuno anni, non si tratta di un anniversario “importante” come possono esserlo i dieci, i venti o i venticinque anni dalla data di pubblicazione di un disco, ma si tratta di un numero che si può considerare imperfetto e inusuale per un anniversario, l’inizio del percorso per raggiungere un traguardo più “prestigioso”. Per questo motivo reputo giusto parlare di un disco seminale come “Colony” in questo momento, perché dopotutto è stato l’inizio della transizione degli In Flames, è stato il lavoro che forse ha dato alla band il coraggio di osare e iniziare timidamente a raggiungere sonorità senza dubbio diverse che hanno fatto uscire il gruppo più chiacchierato di Göteborg dalla sua zona sicura e che di fatto gli hanno attaccato un bersaglio sulla schiena, ma andiamo con ordine.

“Colony” esce il 31 maggio 1999, a due anni da quel capolavoro chiamato “Whoracle”, ed è il primo disco con la formazione storica degli In Flames, abbiamo infatti Björn Gelotte che passa alla chitarra e lascia il suo posto dietro le pelli a Daniel Svensson, per dare vita alla line-up definitiva del gruppo svedese. All’epoca gli In Flames erano tra le formazioni di punta del melodic death metal assieme a Soilwork e Dark Tranquillity. Il gruppo capitanato da Fridén sembrava una corazzata invincibile, la stessa che si vede sulla copertina di “The Jester Race”, e per questo motivo poteva limitarsi a replicare un disco fotocopia di “Whoracle” e a tutti sarebbe andato bene, invece i Nostri decidono di iniziare a uscire dai binari tracciati da loro stessi. Certo, all’epoca quasi nessuno probabilmente ha dato troppo peso ai piccoli segnali che hanno iniziato l’evoluzione della band, l’uso di sintetizzatori e tastiere che andrà a concretizzarsi nel succesivo “Clayman”, la comparsa delle clean vocals come nella title-track, oppure la voce di Anders Fridén che inizia a spostarsi verso uno scream al vetriolo, o la scomparsa di parti acustiche/folk, qui relegate alla sola “Zombie Inc” e all’intermezzo “Pallar Anders Visa“. “Colony” è un disco che assieme a “Clayman” vuole legare passato e futuro della band svedese, canzoni come “Embody The Invisible“, la fucilata in faccia “Scorn” e “Resin” vogliono rappresentare un unione con i lavori precedenti, mentre canzoni come la title-track con i suoi sintetizzatori, la catchy “Ordinary Story” e “Insipid 2000” con il senno di poi sono un monito ai fan per ciò che la band diventerà pian piano.

Musicalmente parlando “Colony” è un album quasi inattaccabile, si perde solamente nel finale con “Insipid 2000” e “New World“, ma nel complesso il disco è il ritratto di una band forte e consapevole dei suoi mezzi, che vuole quasi sfidare il suo stesso passato inserendo una nuova versione di “Behind Space“, rinominata “Behind Space ’99“, dove Fridén si trova nell’ingrato compito di fare meglio di Mikael Stanne e della versione originale presente nel debut album “Lunar Strain”. Un compito duro e non totalmente riuscito, soprattutto per la volontà di tagliare la parte acustica finale, vocalmente però Anders Fridén, colui che per i puristi diventerà il simbolo del declino degli In Flames, riesce a tenere testa egregiamente all’ex vocalist ora in forze nei Dark Tranquillity. In questo album il melodic death dei Nostri si fonde alla perfezione con le influenze esterne che stavano iniziando a contaminare la band, come avviene per esempio in “Coerced Coexistence“, dove appunto coesistono passato e futuro della band di Göteborg, dove la voce sintetizzata di di Fridén si fonde alla perfezione con i riff squisitamente melodeath della premiata Gelotte-Strömblad e il drumming forsennato del nuovo arrivato Svensson.
Ascoltando “Colony” dopo più di venti anni ci si ritrova davanti a un disco che risulta ancora fresco e attuale non solo musicalmente parlando, ma anche da un punto di vista lirico. Gli In Flames sono sempre stati una band con testi molto criptici e allo stesso tempo maturi, o almeno lo erano fino a “Reroute To Remain”, poi da lì i testi hanno iniziato a essere più semplici e diretti. Un esempio della maturità lirica di “Colony” può essere “Ordinary Story”, che è un’amara rappresentazione della società odierna e che continua a essere incredibilmente attuale.

A conti fatti “Colony” è un disco maturo e completo che rischia di essere oscurato da un capolavoro come “Whoracle” e da un disco spiazzante come “Clayman”, dove gli accenni ai cambiamenti sonori presenti in “Colony” iniziano a far scattare più di un campanello d’allarme nei fan della band svedese. Questo quarto disco degli In Flames invece è uno dei migliori composti dai Nostri e che difficilmente stanca, anzi! “Colony” è l’album dove la band svedese dimostra di non volersi sedere sugli allori e di voler esplorare e andare verso nuovi lidi, un po’ come le figure sulla barca presenti nello splendido artwork di Andreas Marshall che varcano un portale verso nuovi lidi senza alcuna paura delle insidie e dei pericoli che potranno trovare.

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