JINJER – Per la fabbrica delle nuvole, l’unico limite è il cielo

by Leonardo Cervio
La carica e l’energia dei Jinjer sono sbarcati in Italia per due serate consecutive: in occasione della seconda data, all’MK Live Club di Carpi, abbiamo avuto l’occasione di fare una chiacchierata con il bassista Eugene Abdiukhanov, con cui abbiamo fatto una lunga carrellata su tutto il corso della band, dalle origini fino alla sempre più crescente fama odierna. English version Ciao Eugene, sono Leonardo di MetalPit ed è un vero piacere averti ospite sulla nostra webzine! Due anni sono passati dall’uscita di “King Of Everything”, il vostro ultimo album: cos’è cambiato, da quel momento, nella vostra carriera, nella vostra vita? Cosa sono diventati ora i Jinjer? In pratica, è cambiato tutto! (ride) Pure il nostro batterista è cambiato, anche se a dire la verità la sostituzione era avvenuta due mesi prima dell’uscita di “King Of Everything”. Da quell’album, è stata una vera e propria rivoluzione: prima della sua uscita eravamo solamente una piccola band dall’Ucraina, mentre ora siamo una band di livello internazionale con tour in tutto il mondo… quindi sì, è cambiato veramente tutto! Partiamo proprio dall’inizio, dalla vostra terra natìa: due anni fa avete suonato al BUMA (Best Ukranian Metal Act, ndr) insieme ad altre giovani band ucraine, ad esempio Ignea ecc… Vi sentite una sorta di alfieri del metal ucraino? E credete che la vostra sempre crescente popolarità stia aprendo le porte del vostro paese al metal? In un certo senso sì, ma non in maniera così semplice e immediata: il fatto che i Jinjer siano ormai conosciuti e famosi vuol dire poco o nulla, ciò non aprirà le porte del mio paese al metal, non in maniera diretta perlomeno. Forse questo vale solo per un ristretto gruppo di persone, che tramite noi riescono ad inserirsi e a scoprire nuove band nel panorama ucraino: queste band spesso utilizzano il nostro hashtag per farsi conoscere, e ci sta. Ma la nostra fama non ha un impatto diretto e una grande influenza sull’underground metal ucraino. In verità, questa popolarità funziona in maniera diversa: dopo diversi anni di tour, ho avuto modo di fare nuovi amici e di trovare sempre più contatti ogni volta in giro per l’Europa, e da quest’anno pure negli States. Molto spesso le giovani band ucraine vengono da me a chiedermi consigli e/o contatti per organizzare date, concerti… io giro il loro nome ai contatti: questo le aiuta molto. Ad esempio, una band ucraina molto valida sono gli Space Of Variations, che tra l’altro hanno vinto il BUMA l’anno scoso: ho girato a loro un contatto, e hanno iniziato a suonare nei loro primi concerti in giro per l’Europa. E sono sicuro che per loro questo sia solo l’inizio. In questo modo noi possiamo aiutare le band, ma solo perché i Jinjer sono famosi non risolleveranno un’intera scena nazionale. Questa difficoltà delle band ucraine nello sfondare e nel riuscire a farsi conoscere a livello internazionale, è dovuta principalmente alla situazione economica, politica e sociale del vostro paese? Non del tutto: credo che sia le band italiane che le band ucraine abbiano più o meno lo stesso livello di difficoltà nel farsi un nome. Più che tra Italia e Ucraina credo che la vera differenza sia con Paesi come la Germania, in cui è più facile farsi conoscere: il mercato musicale tedesco è molto più grande, ci sono molte location dove suonare e molti più ascoltatori, cose che in Italia ci sono in misura minore, e ancor di più in Ucraina. Generalmente, uscire dall’underground è molto difficile, costa un sacco di sforzi e devi essere pronto a ingoiare molta merda: fare 2000/3000 chilometri solamente per un concerto, dormire sul pavimento o in un camion per tre, quattro giorni di fila, prendere una fetta di pane e un filetto di pesce al supermercato oppure comprarsi un hamburger a un fast food. Tutte queste sono cose che abbiamo passato nel nostro primo tour. Devi sempre metterci più impegno possibile, ma se componi musica scadente non andrai da nessuna parte: se invece la tua musica è di qualità, allora poniti degli obiettivi e vai avanti per la tua strada, costi quel che costi. Prima mi facevi riferimento ai nuovi amici e contatti che ora hai anche in America: il 2018 è stato l’anno per il primo tour dei Jinjer negli States. Per le band europee sobbarcarsi un tour oltreoceano è sempre molto impegnativo, soprattutto per i costi: ci puoi raccontare qual è stata la vostra esperienza? È stato fantastico: il primo tour è stato in primavera, giusto qualche settimana fa abbiamo fatto il secondo tour e ci ritorneremo di spalla ai Devildriver tra qualche mese. Penso che tutto questo successo sia dovuto al fatto che la nostra fanbase più estesa si trovi proprio negli Stati Uniti, e che ci siamo fatti desiderare per un bel po’ di tempo. Tre tour nello stesso paese, e nello stesso anno, ci fa capire quanto le cose stiano andando bene: abbiamo soddisfatto i nostri fan d’oltreoceano, ma credo che non ritorneremo in America prima dell’autunno 2019. È stato veramente figo, club e locali stracolmi, un sacco di persone che sono venute a vederci da lontano… ma dici bene quando parli di quanto sia costoso un tour del genere. Il problema più grande per le band europee è richiedere il visto per entrare negli USA, non importa se tu appartenga all’Unione Europea o meno: e non è un visto per viaggio d’affari o per turisti, è un visto per i lavoratori. Tutti noi abbiamo avuto problemi con il visto, abbiamo dovuto cancellare i primi tre show in Texas perché non avevamo ancora ricevuto i visti, e ci hanno messo più del dovuto. Inoltre, il visto per gli USA ha dei costi molto, molto alti; devi veramente spendere un sacco di soldi per ottenerlo. Pure gli aerei presentano dei costi non indifferenti: a ciò aggiungi il furgone da noleggiare una volta atterrato negli States, e infine il costo per la crew. Ad inizio carriera avevamo degli amici come crew, addirittura una volta siamo stati costretti a non pagarli, ma ora fortunatamente abbiamo una crew professionale; se la situazione è veramente critica potresti ritrovarti costretto ad assumere un tour manager che conosce molto bene l’America e che parla correttamente l’inglese, perché non è detto che il livello di inglese che ti basta utilizzare in Francia o in Italia possa essere adatto a gestire il business e il marketing in un paese madrelingua. Per quasi tutte le band, molte di queste spese sono coperte dalla propria etichetta, ma comunque qualcosa di tuo lo devi sempre sborsare. Come si è ormai capito, ormai siete una band di caratura internazionale, che si divide tra i palchi dei più importanti festival metal mondiali e in tour da headliner. Quale tra le due tipologie di concerto preferisci di più: gli stage più prestigiosi, o gli show nei piccoli club, dove la folla è a due passi da te? Sono due cose differenti, ma tutte e due sono estremamente importanti: ieri sera (13 agosto, ndr) abbiamo suonato in un locale molto simile a questo, dove il pubblico era a due passi da me, ma ha la stesso importanza dello suonare per 2000 o più persone. Tutti e due hanno pro e contro, e per questo mi risulta difficile scegliere. Fino ad adesso abbiamo parlato della vostra carriera, della vostra vita in tour, ma ora spostiamo la nostra attenzione sulla vostra musica: catalogarvi in un determinato genere è difficile, dato che come molti esponenti del metal moderno incorporate molte influenze. Ma quali sono le tue/vostre principali influenze sulla vostra musica e/o sul vostro modo di suonare? Caspita, mi è molto difficile indicare solo due o tre band che influenzano la nostra musica e il mio modo di suonare: le mie band preferite sono Gojira e Meshuggah, ma ascolto tutte le varianti del metal. Sono cresciuto con le band death metal americane, dai Cannibal Corpse fino ai Death, passando per band più progressive come Atheist e Cynic; sempre riguardo al progressive metal, mi piacciono molto i TesseracT e soprattutto i Monuments, una delle migliori band metal del nuovo millennio secondo me. Pure il doom metal è un genere che mi ha sempre affascinato e che ho ascoltato molto in passato: My Dying Bride, Katatonia, Anathema (compresi gli ultimi album più melodici), stiamo parlando di grande musica. Ma è nel nu metal che trovo la mia più grande ispirazione nello suonare, ovvero Ryan Martinie, il bassista dei Mudvayne. Mentre la scintilla che ha fatto scoccare il mio amore per il rock, e di conseguenza per il metal, è stata accesa dai Nirvana: avevo 12/13 anni quando li ascoltai la prima volta, e ne rimasi folgorato. Ma non ascolto solo metal: essendo bassista, mi sono interessato pure al jazz e al funk, dove suonano grandi bassisti come Marcus Miller, Victor Wooten e Jaco Pistorius. E infine apprezzo anche il rap: tra i miei gruppi preferiti ci sono i Cypress Hill, gli House Of Pain, Wu-Tang Clan – i ragazzi (gli altri membri dei Jinjer) adorano un sacco questo gruppo -, gli Onyx…. come puoi aver capito, ci sono un sacco di band che ascoltiamo e che ci influenzano! Grazie mille della risposta esauriente, Eugene. Siamo arrivati alla fine dell’intervista, ma prima di salutarci volevo farti un’ultima domanda: su Instagram avete annunciato il terzo tour negli States, dove suonerete delle nuove canzoni. Puoi darmi una piccola anticipazione su questo? Abbiamo in programma di scrivere un EP: non abbiamo una data di uscita al momento, ma abbiamo deciso che il 15 settembre entreremo in studio. Suonerà molto più progressive dei precedenti, sarà un nuovo capitolo nella storia dei Jinjer! Non vedo l’ora di ascoltarlo! Ora l’intervista si è veramente conclusa: grazie mille Eugene, è stato un vero piacere fare quattro chiacchiere con te. Grazie a te Leo, alla prossima!

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