SÓLSTAFIR – Emozioni dritte dal cuore

by Giuseppe Piscopo

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Altra tappa estera, altra intervista con un pezzo da novanta quale è il frontman dei Sólstafir Aðalbjörn Tryggvason con la sua ipnotica barba. Tempistiche leggermente ristrette per motivi logistici, ma il cantante si è rivelato gentile e caloroso, in contrapposizione alle fredde lande di cui è originario. Buona lettura!


Siete stati in Italia qualche giorno fa, per due date. Avete apprezzato l’esperienza nel nostro Paese? Qualche pensiero a riguardo?

È stato davvero bello! Onestamente, la prima volta in cui siamo venuti in Italia, non è andata bene. È stato molto tempo fa, sicuramente interessante, ma dopo quella volta non siamo tornati per qualche anno perché, sai, chi si occupava di fissare i nostri show ci diceva ‘non ne vale la pena, è lontano, non attirate abbastanza gente”… ma dopo, due anni fa, siamo tornati in Italia con i Mono e i The Ocean. Qualcosa era cambiato: sono davvero grato per quest’esperienza, abbiamo suonato due concerti che hanno cambiato completamente la nostra prospettiva. Adesso siamo tornati per altri due concerti ed è stato fantastico, tanto affetto, pubblico eccezionale, clima freddissimo ma la gente è riuscita a scaldare il tutto. Ci siamo sentiti davvero fortunati, oltre ogni nostra più grande speranza.

Ottimo, ci fa piacere sentirtelo dire! Adesso siete a metà del tour e abbiamo avuto modo di vedere le vostre reazioni sui social e quelle dei fan, con qualche show tutto esaurito. Quali sono le vostre impressioni finora? Sta andando bene?

Sta andando molto bene. Sai, ovviamente le cose cambiano: dieci anni fa suonavamo nei piccoli club. Quando organizzi tour del genere, e per fortuna non li organizziamo noi stessi, vuoi puntare a locali da 600-900 persone o da 300-500? Ovviamente puoi scegliere quelli da 300 e dire che sono tutti esauriti! Oppure puoi ambire a posti da 1500 persone, ma saranno sempre mezzi vuoti. Siamo stati fortunati, questi locali sono della misura perfetta. La prima data è stata di lunedì, a Helsinki, con più di 700 persone. Helsinki è uno dei nostri posti preferiti… il nostro secondo concerto fuori dall’Islanda è stato a Helsinki, dodici anni fa, da allora è uno dei posti che preferiamo visitare. Ci sono anche due Paesi in cui non siamo mai stati: la Croazia e la Serbia. Queste due nazioni sono state richieste espressamente da noi, perché vogliamo visitare nuovi luoghi. Per il resto sta andando bene, Londra è stata fantastica e il locale era pieno, anche Parigi… è bello vedere come, dopo anni e anni a suonare in piccoli locali, il tutto sia ancora in crescita. Ci dà un sacco di forza e soddisfazione, la gente è molto interessata… ancora adesso!

Il vostro ultimo album, “Berdreyminn”, si è spostato in un certo senso verso sonorità più morbide…

Oh, davvero? Ok.

Non fraintendermi, l’ho apprezzato molto, non era un commento negativo.

Oh, no, sto scherzando.

Haha, va bene! In ogni caso, rimane un album dei Sólstafir perfettamente riconoscibile. Puoi dirci qualcosa sulla sua genesi, sulle tematiche e le influenze?

In realtà penso sia sempre stato così. Il nostro primo album è stato registrato nel 1999, è uscito tre anni dopo, ma quello successivo era completamente diverso, con più voci pulite. L’album successivo, “Köld”, più voci pulite, un album più morbido, aperto e variegato. Poi abbiamo fatto “Svartir Sandar”, su cui c’era “Fjara”: una canzone molto delicata. La gente era tipo ‘Cos’è questa merda? Pensavo foste una band black metal!’ E noi ‘Beh, questo è ciò che ci piace! Facciamo quello che ci piace fare.’ Poi è arrivato “Ótta”: un sacco di voci pulite, con violini e quant’altro. E ancora il pubblico ‘Aaah, ma cos’è ‘sta roba? Avete smesso di essere pesanti!’, ‘Beh, questo è ciò che ci piace.’ Infine abbiamo pubblicato “Berdreyminn”: c’è ancora molta roba pesante, ancora molti violini e voci pulite e ci sentiamo dire ‘Stavolta vi siete allontanati dal black metal.’ Beh, non proprio! Sono passati diciassette anni dal nostro ultimo album definibile come black metal. Mi piace sperimentare, provando a cantare meglio, a impegnarmi di più sulle parti vocali e scrivere testi migliori… semplicemente vuoi progredire, scrivere diversi tipi di canzoni. Le influenze sono le stesse, fondamentalmente. Intendo dire, mi piace sempre la stessa musica: molti artisti pop, molti black metal, cantautori, qualcosa di country, molte band shoegaze… e la vita in generale. Se dovessi fare un viaggio di quattro giorni nella natura selvaggia con la mia ragazza, influirà su di me. Influirà su ciò che penso di certe cose, è qualcosa di spirituale. Se meditassi per una settimana o chessò, sicuramente influirà sul mio modo di vedere le cose. Se leggo cinque libri sulla spiritualità, influiranno su di me. Se i miei genitori dovessero morire… ci sono così tante cose che possono influenzarti.

Come si svolge il vostro lavoro quando vi mettete a scrivere nuovo materiale?

Prendi uno strumento e la musica verrà fuori naturalmente.

Ok, ma c’è un compositore principale nella band o qualcosa di simile?

Non proprio. Alcune canzoni sono idee mie, altre sono di Gringo o di Svavar… le scriviamo insieme, più o meno. Non è come Lennon-McCartney. È una band, ciascuno di noi ha modo di dire la sua. Io so chi ha scritto ogni singola parte: di ogni canzone, posso dirti chi ha scritto quale riff, quale testo, quale traccia di batteria. Posso farlo, ma non importa granché, perché siamo una band.

Un paio di anni fa vi siete separati dal vostro batterista originale. In termini di composizione, è cambiato qualcosa? Aveva un ruolo specifico?

No, non proprio. Abbiamo scritto un solo album senza di lui… con lo stesso metodo. In passato ci incontravamo tutti e quattro e scrivevamo le canzoni. Era un membro molto importante, con molte idee e quant’altro, ma è tutto uguale: ci vediamo e scriviamo. Non è cambiato niente in sostanza, ma lui scriveva metà dei testi, quello è cambiato. Ora devo farlo da solo.

Il nuovo album è molto solido, come ho già detto l’abbiamo apprezzato molto. Quale delle nuove canzoni vi state divertendo di più a suonare in questo tour?

Ci sono otto canzoni sul disco, ne stiamo suonando quattro e le altre non sono mai state suonate al di fuori dello studio. All’inizio erano “Silfur-Refur”, poi “Ísafold”. Ora come ora, mi piace di più suonare “Bláfjall”: ci sono degli organi all’interno, una sorta di feeling rock’n’roll misto a musica sacra, se vogliamo metterla così. Quindi sì, direi “Bláfjall”.

In passato, per un paio di album, avete scritto testi in inglese e poi siete tornati all’islandese. È stata una sorta di esperimento non andato a buon fine?

No, non direi… abbiamo usato l’islandese sul nostro demo, sul nostro primo album e sull’EP “Black Death”. Abbiamo avuto un ospite inglese per la canzone “Bitch In Black” e da lì ci siamo indirizzati semplicemente verso i testi in inglese. Poi, il ritorno all’islandese è coinciso con il momento in cui ho iniziato a cantare con voce pulita, mi sentivo più a mio agio a cantare dal cuore, con il mio modo di esprimermi nella lingua in cui penso e scrivo. Se dovessi dire la mia sulla letteratura inglese e scrivere un testo personale in quella lingua senza impazzire o risultare ridicolo, dovrei essere davvero, davvero bravo in inglese, e non lo sono. E oltretutto, noi vediamo la voce più come uno strumento.

Secondo te, quale aspetto dell’Islanda ha definito la vostra musica più di tutti?

Non so. Credo che il fattore principale siano gli altri artisti. Anche la natura ha il suo ruolo… è una cosa che c’è sempre stata. Per me è normale guidare per dieci minuti per raggiungere il nulla assoluto: quando sei un bambino, pensi che chiunque abbia questa sorta di natura selvaggia nel proprio cortile, il più delle volte nel retro della tua testa. Lo apprezzo maggiormente man mano che invecchio. Non devo necessariamente andare in Australia o in America, mi piace stare a casa. È più confortevole, credo che ci renda ciò che siamo. Ma di nuovo, credo che più di tutto sia la musica stessa.

Ok, credo che il nostro tempo sia scaduto. Grazie di nuovo per il tuo tempo, ci vediamo sul palco!

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