ALICE IN CHAINS + SHAME @ Sherwood Festival, Padova – 28/06/2018

Immagino concorderete più o meno tutti nel dire che la scena grunge della prima metà degli anni ’90, in quel di Seattle, sia stata un fenomeno irripetibile, frutto di una convergenza di fattori e talenti che hanno dato vita a qualcosa di variegato ma allo stesso tempo piuttosto circoscritto nello spazio e nel tempo. Una scena con parecchi protagonisti dalla storia travagliata, farcita di droga, sofferenza e morti eccellenti, l’ultima delle quali Chris Cornell dei Soundgarden. Gli ultimi rimasti a tenere le redini di questa scena, oltre vent’anni dopo, sono i Pearl Jam e gli Alice In Chains, trainati da un Jerry Cantrell più che mai capitano della nave insieme ai suoi compagni di una vita Mike Inez e Sean Kinney. Di William DuVall, che da oltre dieci anni si fa carico dell’enorme peso dell’eredità dell’inimitabile Layne Staley, si è detto tutto e il contrario di tutto: dopo tutto questo tempo possiamo però affermare con certezza che si tratta di un artista tanto discusso quanto valido ed efficace sia in sede live che in studio, al netto di tutti i noiosi (e inutili) paragoni con il predecessore. Potevamo quindi farci scappare la prima calata italica del quartetto, anni dopo l’ultima visita in veste di headliner? Ecco il nostro resoconto dallo Sherwood Festival di Padova, manifestazione dal ricco programma che vede la prima delle due tappe nostrane del tour che anticipa l’uscita di “Rainier Fog” prevista ad agosto. Buona lettura!

L’onore di aprire il concerto di una delle band simbolo della musica pesante spetta ai milanesi Shame, nati nel 1996, che ci propongono un hard rock abbastanza standard, che non azzarda troppo ma che propone qualche spunto compositivo interessante. Il pubblico, che fortunatamente non si lascia scoraggiare dal cielo coperto e dalle poche gocce cadute prima di entrare nell’area festival, si mostra già abbastanza nutrito e partecipe nei confronti dei quattro ragazzi che, dalla loro parte, hanno anche dei suoni che si rivelano ben bilanciati fin da subito, non ottimali al 100% ma sicuramente un buon risultato considerando la triste sorte di parecchi gruppi spalla. Andrea Paglione (voce e chitarra) e Pino Foderaro (chitarra) si alternano negli assoli e nell’interazione con gli astanti, limitando le chiacchiere al minimo visto il poco tempo a disposizione ma offrendo una prestazione convincente. Buona anche la prova della sezione ritmica, con una batteria forse un po’ statica ma che fa il suo dovere insieme al basso che ogni tanto tira fuori delle linee meno scontate di quanto ci si possa aspettare in un genere simile. La mezz’ora a disposizione scorre veloce, segno della bontà di un concerto senza fronzoli e che fila via senza intoppi, al termine del quale la band lascia il palco tra gli applausi.

SHAME

L’attesa per gli Alice In Chains è spasmodica: il gruppo manca in Italia da quattro anni, otto se si considera il loro ultimo tour in veste di headliner. La band sta vivendo una seconda giovinezza grazie all’estro infinito di Jerry Cantrell, da sempre parte integrante dell’anima della band e che dal 2009 ha ridato nuova linfa vitale con un songwriting sostanzialmente diverso rispetto al passato, più complesso e quasi progressive, ma ancora in grado di sfornare pezzi più immediati dalla classe sopraffina. Se, però, in fase compositiva Cantrell spadroneggia in termini di firme apposte sui brani, dal vivo è lungi dall’assumere un atteggiamento da primadonna, favorendo una resa generale del gruppo sopra le righe con DuVall ormai perfettamente a suo agio nel difficile ruolo che gli spetta e con la premiata ditta Inez Kinney, sezione ritmica tra le più solide in circolazione, frutto di venticinque anni di simbiosi. La scaletta, forse anche un po’ a sorpresa visto che il materiale post-reunion inizia a farsi corposo, è di quelle che fanno la felicità di qualsiasi nostalgico: nessun lavoro viene lasciato in disparte, dando il via allo show con un’esplosiva “Bleed the Freak” e scatenando il pubblico con la più recente “Check My Brain“. Le due voci, vero e proprio marchio di fabbrica della band di Seattle, sono una vera e propria delizia per le orecchie e sono anche un bel vantaggio nel momento in cui le corde vocali del pubblico iniziano a stancarsi, permettendo di passare alla linea vocale più bassa. A tal proposito, il pubblico si è rivelato il quinto componente effettivo, perennemente coinvolto e impegnato a cantare ogni singola parola sovrastando a tratti anche i due cantanti. Presente anche il moto perpetuo al centro della folla, specialmente sui pezzi più carichi (primo su tutti “Them Bones“, che apre definitivamente la valvola dell’adrenalina che scorrerà senza sosta per tutta la serata). Un manipolo di una ventina di persone in costante movimento, forse un po’ fastidioso ma sicuramente meglio che trovarsi di fronte altrettanti cellulari.

Ottima l’alternanza dei brani proposti, che spaziano dagli energici inni giovanili risalenti all’alba degli anni Novanta (“We Die Young” o l’immancabile “Man in the Box“) ai pezzi più riflessivi come “Down in a Hole“, manifesto della precaria condizione psicofisica di una discreta fetta di giovani nell’Anno del Signore 1992; il nuovo corso è rappresentato da pochi brani, solo cinque sui diciannove totali, ma questi sono accolti con uguale entusiasmo e il loro impatto è enorme, grazie anche a giochi di luci studiati ad hoc man mano che si avanza nella serata e che riescono ad amalgamarsi al mood di macigni quali “Hollow“, “Last of My Kind” o la nuovissima “The One You Know“. DuVall e Cantrell catalizzano l’attenzione di tutti, senza se e senza ma, non disdegnando scambi scherzosi con un pubblico che va dai coetanei della band (ormai cinquantenni) ai liceali che vedranno l’esame di maturità solo tra qualche anno, a dimostrazione di come le tematiche e il genere proposto trascendano le generazioni.  Spazio anche per l’album omonimo e per i due EP, vere e proprie gemme qui rappresentate da una commovente “Nutshell“, “No Excuses” e, a sorpresa, “Got Me Wrong” durante il bis. La conclusione, non c’è neanche da chiederlo, è affidata alle intensissime “Would?” e “Rooster“, cantate a squarciagola nonostante la voce inizi seriamente a mancare.

Classe infinita, musicisti sommessi e al servizio di una musica che ha segnato un’epoca ma che non hanno paura di andare avanti. Dopotutto, Cantrell e soci hanno tutte le ragioni per costruirsi un presente e un futuro musicale che non debba dimostrare niente a nessuno, ma che si consolida ancora in dischi di ottima fattura e in una celebrazione, un tributo perenne a chi questi palchi non potrà più calcarli. Chapeau.

 

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