A PERFECT CIRCLE – Eat the Elephant

by Giuseppe Piscopo

Quattordici anni sono tanti, tantissimi nel mercato discografico di oggi: band nascono e muoiono in questo lasso di tempo, interi generi passano dall’essere in voga al cadere nel dimenticatoio. Ciò, tuttavia, sembra non costituire un problema per uno dei frontman più istrionici degli ultimi vent’anni, Maynard James Keenan, e del suo fido compagno di merende Billy Howerdel: lasciando da parte il nuovo lavoro dei Tool, sul quale si è detto tutto e il contrario di tutto, l’attesa per il nuovo disco degli A Perfect Circle è stata (quasi) altrettanto spasmodica, tra uscite dei Puscifer, vigneti in Arizona e un po’ di altre cose. Fin dai primi ascolti di “Eat the Elephant“, però, è evidente come l’attesa sia stata ripagata: siamo di fronte a un ritorno coi fiocchi, piuttosto complesso e in una certa misura diverso da quanto sentito finora (specie su quella gemma irripetibile che è “Mer de Noms”), ma del tutto riconducibile alla premiata ditta Keenan & Howerdel.

La direzione più intimista e riflessiva è ben chiara fin dalla title track posta in apertura, una delicata e sommessa introduzione agli APC del 2018: questi sono rappresentati a dovere già nella prima metà del disco, con tutti i singoli rilasciati finora che danno effettivamente una panoramica realistica del tutto, insieme a “The Contrarian“. Chiaramente, le innumerevoli sfaccettature della voce di Keenan sono uno dei fili conduttori col passato, nonostante l’aggressività diretta e senza fronzoli abbia lasciato spazio a una malinconia diffusa; così anche le chitarre e gli arrangiamenti sopraffini di Howerdel permeano da cima a fondo i 57 minuti che compongono il lavoro. Tuttavia, i “vecchi” APC fanno capolino paradossalmente grazie all’operato della “nuova” sezione ritmica, con Matt McJunkins (basso) e Jeff Friedl (batteria) a garantire una certa pesantezza nei pezzi più solidi del lotto: è così che canzoni come le già note “Disillusioned” e “TalkTalk” riescono a toccare corde sopite da tempo, generando emozioni non indifferenti soprattutto nei fan dell’album di debutto, come il sottoscritto.

C’è però spazio per vari episodi che un po’ riescono a sorprendere l’ascoltatore, come la vecchia conoscenza “By and Down the River” (versione rivista e aggiornata del quasi-omonimo singolo del 2013, con dei pregevoli assoli di Howerdel) e il carattere spiccatamente radiofonico di “So Long, and Thanks for All the Fish” e “Delicious“. Non fate l’errore di confondere il loro essere spudoratamente catchy con qualcosa di semplicistico: le orchestrazioni maestose e l’onnipresente critica di Keenan agli usi e costumi odierni nella prima, così come le linee vocali mai scontate e i tempi dispari (e pure un assolazzo da lacrimoni) nella seconda, riescono a rendere estremamente interessanti due pezzi che difficilmente vi si scolleranno di dosso.

Il terzetto finale, introdotto dalla breve e intensa “DLB“, riserva poi due sterzate sperimentali inframezzate da “Feathers“, un bel brano dall’andamento diremmo classico per la band: c’è “Hourglass“, la cui voce quasi rappata e a tratti carica di effetti si sposa con l’incedere quasi robotico della musica (quantomeno all’inizio), mentre “Get the Lead Out” ha l’onore e l’onere di chiudere un gran disco, facendolo con melodie alienanti, atipiche e monotone che hanno su chi ascolta un effetto straniante, ma non fuori posto nel contesto generale.

Che dire, quindi? Dopo tutto questo tempo era più che lecito aspettarsi qualcosa che non fosse all’altezza, o perlomeno che fosse molto (troppo) diverso e contaminato dalle varie esperienze maturate in quattordici anni. La verità è che diverso lo è, ma “Eat the Elephant” è assolutamente degno di stare al fianco dei suoi predecessori: non vi convincerà al primo ascolto, forse neanche al secondo, ma dategli il tempo e l’attenzione necessari e saprà conquistarvi a dovere.

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