ADE – Rise of the Empire

by Luca Gazzola

Gli Ade non sono certo un gruppo che ha bisogno di molte presentazioni: italiani di Roma, nati nel 2007, fanno death metal con influenze folk trattando tematiche come l’antica Roma sin dall’esordio nel 2008, con l’EP intitolato “Ultima Ratio”. Ma, a parte il tema dei testi e delle coreografie, non hanno molto di che spartire musicalmente, dato che i romani si ispirano a gruppi storici come Impaled, Behemoth e, più vagamente, Carcass (dopo che hanno smesso di fare grind) e Nile e aggiungendo, come detto prima, parti folk grazie a strumenti a fiato e acustici, e melodiche, come gli Orphaned Land ma più brutali e pestati. Si tratta di un album omogeneo e orecchiabile ma pesante, composto da 11 pezzi di una durata che va dal minuto e mezzo ai 5 e mezzo per una durata complessiva di 43 minuti circa.

Tra le canzoni rilevanti:

  • Empire“: seconda canzone. Uno dei migliori pezzi dell’album, nonché quello più gettonato su Spotify. Un’intro maestoso e solenne all’insegna del folk precede una carica di riff grezzi e pestati e intermezzi più lenti dove flauti, percussioni e strumenti antichi la fanno da padroni creando un’atmosfera esotica e un po’ cupa, qui più che in altri pezzi. Tra questa e la successiva “The Gallic Hourglass” si ha praticamente il meglio dell’album.
  • Suppress the Riot“: ottavo pezzo dell’album. Se si volesse riassumere l’album si potrebbe usare tranquillamente questa canzone: 4 minuti e mezzo in cui vengono incastrati come in un orologio meccanico una batteria instancabile e iperattiva, chitarre distorte a creare un muro di suono notevole tra riff spediti e parti con un groove pesante, una voce in growl quasi gutturale e effetti esterni a creare un’atmosfera esotica ed epica.

Rispetto agli album precedenti i Nostri hanno ridotto la brutalità, specialmente in confronto a “Prooemivm Sangvine”. Di “Spartacus” si sente la mancanza di tecnicismi agli strumenti principali, e più in generale si osserva una sorta di separazione con gli strumenti folkloristici, più relegati negli intermezzi e meno amalgamati nei riff con chitarre e batteria, un fenomeno percepito già nello scorso album e più marcato in questo. In generale l’atmosfera, come anche in “Carthago Delenda Est”, è più cupa. Indubbiamente è l’opera più sobria della band romana, e quella che dà più l’impressione di essere spenta oltre che cupa. Le registrazioni sono limpide e mixaggio è buono, ma un po’ anonimo: in alcune parti sembra la cover di una colonna sonora da film in versione death metal. Un paio di pezzi meritano più ascolti, ma altri, specie verso la parte centrale e finale, tendono a somigliarsi, rendendo l’album più noioso o comunque pesante da sentire nella sua interezza. Vale la pena sentirlo, ma è di un altro livello rispetto ai precedenti, e non in positivo.

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