ALICE IN CHAINS – Rainier Fog

by Giuseppe Piscopo
Gli Alice In Chains tornano a casa. Sia in senso letterale che figurato con un album, “Rainier Fog“, registrato presso gli Studio X (gli stessi, ma sotto diverso nome, di “Alice In Chains” datato 1995) di Seattle, quella città che ha dato vita nella prima metà degli anni ’90 a una scena musicale irripetibile che ha lasciato in Cantrell e soci tanti vuoti e fantasmi che aleggiano nell’aria. Il terzo album nella carriera di una band è spesso visto come il giro di boa, il momento in cui tirare le somme e fare dei resoconti: questo momento si ripresenta per gli Alice In Chains nel 2018, con il terzo album dato alle stampe dalla reunion del 2006 che supera l’esame a pieni voti e che, per il sottoscritto, rischia di piazzarsi sul gradino più alto di un ipotetico podio composto dai “nuovi” lavori. “Rainier Fog”, un omaggio al Monte Rainier che sovrasta la città d’origine del quartetto, è un disco compatto, che si lascia ascoltare molto facilmente e caratterizzato da una classe e una qualità compositiva di elevata caratura: l’iniziale “The One You Know“, primo singolo ormai ben metabolizzato, è già una buona cartina tornasole che ci permette di intuire la direzione dell’album, che si dimostra meno dispersivo rispetto ai due precedenti e dà l’idea di una band perfettamente conscia dei propri mezzi e dei propri obiettivi. Gli elementi chiave degli Alice In Chains sono tutti lì, a partire dalla doppia voce con William DuVall che qui, più che mai negli ultimi nove anni, risulta inserito in un sistema oliato alla perfezione, così come il magnifico tocco di Jerry Cantrell e i ritornelli memorabili che si ficcano in testa dopo il primo ascolto. Le partiture più complesse trovano spazio in brani come “Red Giant“, la cadenzata “Drone” (con il basso di Mike Inez in grande spolvero) e la lisergica “Deaf Ears Blind Eyes“, a cui si contrappongono pezzi ariosi come “Fly“, dal sapore novantiano ma con un tocco moderno, e la ballata “Maybe“. A metà strada tra questi due poli c’è dell’altro, ottimo materiale: la maestosa title-track, ad esempio, è un esempio di come la band non possa e non voglia dimenticare il proprio passato, rendendo omaggio ai suoi caduti (“With you here we shared a space that’s always half-empty“, evidente riferimento a Layne Staley e Mike Starr). I due altri singoli, “So Far Under” e la diretta “Never Fade“, sono posti quasi in chiusura prima della bella e malinconica “All I Am“, struggente fotografia delle cicatrici del passato. “Rainier Fog” è un disco profondo, che trova l’ennesimo punto di forza nella produzione e nei suoni curati da due colossi come Nick Raskulinecz e Joe Barresi. È il disco di una band che si ritrova, nel bene e nel male, a fare i conti con il proprio, ingombrante passato ma comunque consapevole di avere ancora qualcosa da dire, una band cementata dalle tragiche esperienze in cui, ad oggi, ogni elemento risulta indispensabile.

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