BEYOND THE BLACK – Lost In Forever

by Giuseppe Turchi

I Beyond The Black, band nata nella teutonica Mannhein, appartengono alla terza generazione del Symphonic Metal, cioè a quel movimento che non riesce del tutto a staccarsi dai canoni dei mostri sacri del genere, pur ritagliandosi un discreto spazio grazie a ottime produzioni, eccellenti performance musicali e collaborazioni di livello. Una serie B, potremmo dire, che cerca la scalata all’Olimpo con una musica d’impatto e il carisma delle varie frontwomen. E di carisma, la coraggiosa Jennifer Haben, ne deve avere assai, dopo esser rimasta sola a portare avanti un progetto in cui tutti gli altri colleghi non credevano più. Così, forte di una nuova line-up, a nemmeno un anno dall’uscita del secondo full-length, i Beyond The Black si ripropongono con una riedizione – arricchita di quattro bonus track – di “Lost In Forever“, in uscita il 13 gennaio su UDR Music.

Ma chi sono questi giovani musicisti? Quali sono le loro tendenze? Ebbene, fare dei confronti con nomi più blasonati è sempre spiacevole. Il recensore, in fondo, sta seduto sulla propria poltrona a giudicare un album che ha richiesto tanti sacrifici e tanto lavoro – soprattutto quando si parla di etichette importanti – con la tendenza, molto spesso, a essere insensibile ai sogni e alle speranze degli emergenti. Il fatto che esista una serie B, però, è innegabile, e il motivo è presto detto: la serie A ha innovato (sebbene sia, attualmente, in fase calante), la serie B ha cavalcato l’onda. Nel caso dei Beyond The Black, il primissimo paragone che salta all’orecchio è quello con i Within Temptation post-“The Heart of Everything“, cioè un gruppo la cui metà delle canzoni può essere remixata per una serata in discoteca, mentre l’altra metà è satura di arrangiamenti e linee vocali ormai scontate. La stessa Jennifer si accosta molto alla den Adel, perdendo però il confronto sui mitici falsetti con cui l’olandese, soprattutto nei primi lavori, ci ha deliziato.

Eccoci dunque alla riedizione di “Lost In Forever“, un disco lungo, ambizioso, “stratosferico”, come lo definisce la UDR. Già a partire dalla titletrack, però, si avverte una tentazione interiore pendere come una spada di Damocle sul capo dei tedeschi, pronta a colpirli e a fagocitarli. Partendo dall’inizio, “Lost in Forever” e “Written in Blood” sono orecchiabili e hanno ritornelli capaci di coinvolgere anche l’ascoltatore più malmostoso, stessa cosa dicasi per “Halo Of The Dark“, “Forget My Name” e “Burning in Flames“. Purtroppo, però, quando il lettore musicale arriva alla traccia 9, la spada di Damocle è già caduta da un pezzo. Una tentazione interna è venuta pure all’ascoltatore, che ormai immagina Sharon al microfono e si chiede se questo album non sia in realtà un inedito registrato tra “The Unforgiving” e “Hydra“. Un ascoltatore che, forse troppo malizioso, canticchia l’intro orchestrale di “See Who I Am” sull’intermezzo altrettanto orchestrale di “The Other Side” (nota di merito alla Haben che, in questo pezzo, inserisce finalmente delle sfumature emotive nell’impostazione della voce). Sentiamo poi un pizzico di Epica, ma giusto un pizzico, nella bombastica, coristica, velocistica “Dies Irae” e in “Shine and Shade“, per poi passare alla pop-ballad amaricaneggiante “Love’s a Burden“.

Precisiamo. Facendo per un attimo epoché del paragone con i Within Temptation, emerge come tutte le tracce citate si lascino ascoltare abbastanza facilmente. Alcune di esse possono persino finire sulla chiavetta USB da inserire nello stereo in macchina. Perché, allora, dare un’insufficienza a “Lost In Forever” che, oltrettutto, è ben prodotto (e ci mancherebbe altro)? La risposta è semplice: perché manca di personalità. Perchè le quattro tracce aggiuntive non aggiungono nulla, anzi, pesano. Siamo di fronte all’ennesima, tecnicamente lodevole, performance musicale che non porta niente di nuovo sotto il sole. Un album i cui ritornelli saranno forse ricordati, ma che non arriva nel profondo dell’anima, che non scuote altre corde, più fini, oltre a quelle del suono piacevole.

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