EQUIPOISE – Demiurgus

by Nicola Mercuriali

Se negli ultimi mesi si fosse parlato, in un ambiente sensibile alle ale più moderne del death metal, di “Demiurgus” degli Equipoise, non sarebbe stato strano veder girarsi qualche testa e tendersi qualche orecchio: chiunque abbia bazzicato tra le strane entità degli appassionati di technical death anche per solo qualche settimana sa bene che quello scioglilingua in realtà è stato atteso come un messia, portatore di luce e nuova gloria nel genere con più basso fretless che ci sia mai stato.

Nati per volontà e capacità del mastermind Nick Padovani durante la florida seconda ondata di gruppi technical/progressive death, gli Equipoise hanno fin da subito destato interesse nella scena e, combinando le enormi capacità di Padovani con della sana “fortuna” in campo di relazioni sociali (entrare nel roster della The Artisan Era in pompa magna e conoscere bene tutti i musicisti della scena nord americana sono ottimi aiuti), in poco tempo sono diventati uno dei gruppi più attesi e importanti del genere. A tre anni di intenso lavoro dall’EP di debutto “Birthing Homuncoli” esce il bramato “Demiurgus” (che include, tra l’altro, le tracce dello stesso EP).

Prima di partire bisogna mettere in chiaro una cosa: questo è nientepopodimeno che IL Supergruppo, con articolo e iniziale maiuscoli; il numero di artisti coinvolti, tra formazione in sé e guest, è più che ridicolo e tutti sono in almeno un altro gruppo ben conosciuto. Di conseguenza, assoli di qualsiasi strumento concepibile sono all’ordine della canzone, siete avvertiti.

Sul piano compositivo siamo nel paradiso del tecnicismo senza se e senza ma. Ci si trova circondati dalle melodie e lo sbrodolìo di note prende il sopravvento, lasciando l’ascoltatore senza fiato per un’ora e tre minuti netti. Per farla breve: è il territorio del più moderno tech/prog death, dei First Fragment e degli Inferi (di cui diversi membri hanno collaborato all’album), della linea melodica che sovrasta la brutalità che “technical” potrebbe ricordare (con buona pace di Necrophagist e compagnia bella). Padovani si è circondato dei mostri sacri del settore (Phil Tougas dei First Fragment e innumerevoli altri, Hugo Doyon-Kaurot dei Beyond Creation e, di nuovo, innumerevoli altri, Stevie Boiser degli Inferi e non continuo per non fare notte) e li ha uniti in un incantesimo fatto di infiniti riff, bassi fretless, chitarre acustiche, tastiere e una batteria di tutto rispetto. Il lavoro è stato lungo e impegnativo e il risultato è a dir poco mastodontico, ma, a dire il vero, una volta ascoltati i tre singoli ci si può immaginare il resto dell’album.

Cosa non proprio accattivante.

Ci sono quindi, a mio parere, tre situazioni che mi hanno fatto dire “meh” fin dal primo ascolto e che, per quanto si siano smussate con i replay, sono rimaste fino all’ultimo:

  1. La cosa che salta per prima all’orecchio ascoltando l’album, con palese certezza, è il basso fretless. Hugo è senza dubbio un ottimo bassista e anche qui lo dimostra eccellentemente, ma ciò che non rende giustizia a strumento e musicista è la produzione. Se in band analoghe il basso, per quanto predominante, rimane uno strumento viscerale, ancora legato al suo ruolo ritmico, qui viene sparato nei registri medi, tagliando la profondità che lo rende così bello ed evocativo. Basta del rumore di fondo mentre si ascoltano le canzoni e questo scompare nel nulla e non si fa più sentire, se non nei neanche tanto sporadici assoli.
  2. Una seconda “pecca” è l’eccessiva lunghezza dell’album. Per quanto le canzoni in sé non esagerino mai nel minutaggio (solo due superano gli otto minuti di durata e le restanti non vanno oltre i sei), nel complesso 14 tracce per oltre 60 minuti di implacabili tecnicismi sono, per me, troppi. Mi considero un amante del genere e lo stile degli Equipoise è perfettamente nelle mie corde, ma in meno di dieci canzoni ben costruite è possibile sparare sapientemente e con precisione tutte le proprie cartucce da musicista (si veda “Relentless Mutation” degli Archspire) senza bisogno di forzare troppo la pazienza dell’ascoltatore, rischiando che alla decima traccia si sia già stancato dei ripetitivi barocchismi ma debba ancora affrontare altri 20 minuti della stessa salsa.
  3. Una eccessiva tracklist sarebbe stata passabile se le canzoni fossero state particolarmente memorabili e accattivanti, però sembra sempre più che questa branca di metal reputi il groove nella musica quasi una debolezza e che, piuttosto che scrivere un riff da headbang non facilmente dimenticabile, si smetterebbe di comporre. Canzoni espressive e con linee melodiche significative ce ne sono, ma sono in minoranza e i punti salienti nascosti tra valanghe di note, riff, melodie e ritmi che passano in un secondo e non lasciano quasi ricordo.

Alla fine della fiera: è sicuramente un album valido, ottimo per qualsiasi appassionato del genere, ma va consumato con moderazione. Chi non ha già fatto gavetta tra questi ritmi difficilmente si appassionerà al genere con “Demiurgus”, ma un ascolto per gli amanti è più che d’obbligo. Con qualche scelta più oculata si sarebbe arrivati ad un prodotto coi contro fiocchi, le premesse compositive, tecniche e musicali c’erano tutte. I musicisti chiamati in causa per l’opera sono tutti professionisti del settore e risultano anche riconoscibili durante tutto l’album (in primis il basso di Hugo, ma anche gli assoli di Tougas sono inconfondibili). Le tre chitarre (perché sono addirittura tre, sì) non sembrano sfruttate appieno e pure due sarebbero bastate, ma non sindachiamo su argomenti ininfluenti. Per quanto abbia fatto tanto scalpore oggi, dubito che sarà ricordato come il picco del genere fra qualche anno o addirittura mese.

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