HATEBREED – The Concrete Confessional

by Luca Gazzola

A distanza di tre anni da The Divinity of Purpose gli Hatebreed hanno pubblicato il loro ottavo album: The Concrete Confessional. Gli Hatebreed non hanno certo bisogno di presentazioni, ma per chi non li conoscesse sono una band metalcore del Connecticut all’attivo dal 1995 quando pubblicarono il loro primo EP. In vent’anni è normale che una band cambi stile, e questo è un caso lampante: debuttati con una miscela ben composta di metal e punk raggiungendo l’apice al quarto album, salvo poi lasciare progredire gli strumenti puntando alla melodicità a discapito della voce unica prot13221579_10154282084328694_2027949721493254247_nagonista mentre le canzoni si prolungavano dal minuto e quaranta agli inizi ai 2 minuti e mezzo, ma la brutalità è rimasta sempre la stessa. L’ultimo album è la (ennesima) conferma di questa trasformazione irreversibile: la voce presente al naturale salvo un pizzico di eco in alcuni punti. Le chitarre e il basso danno spessore alle canzoni mentre la batteria scatenata imprime il ritmo. Nell’insieme le canzoni sfilano lineari e senza intoppi, anche troppo: talvolta non ci si accorge nemmeno che sia cambiata canzone, anche se la durata media delle canzoni si aggiri intorno ai due minuti abbondanti non è di aiuto.

Tra le canzoni rilevanti:

  • From Grace We’ve Fallen: quinto pezzo dell’album. Si stacca un poco dall’andazzo delle canzoni precedenti rendendosi inconfondibile; intro potente, suoni puliti e bilanciati, ritornello orecchiabile. Cosa chiedere di più?
  • Something’s Off: settima canzone. Prima strumenti, poi riff di voce e code di chitarra intervallati da ritornelli con cori discutibili, intermezzo molto orecchiabile. Da non perdere
  • Walking The Knife: undicesima canzone dell’album. Il botta e risposta tra cantante e coro incorniciato da chitarra e basso melodici e brutali allo stesso tempo rendono questo pezzo uno di quelli che si riascoltano più volentieri e che fanno muovere la testa avanti e indietro involontariamente
  • Serve Your Masters: tredicesimo pezzo. Come concludere in bellezza un buon album; la voce quasi onnipresente, gli strumenti che ci danno dentro dal primo all’ultimo secondo, lasciando quasi di brutto chi ascolta che solo in questo momento si accorge che è già passata mezz’ora.

Riassumendo, per chi stravede per gli Hatebreed post-For the Lions non verrà deluso da questo ultimo arrivato; per chi rimpiangeva gli Hatebreed degli anni ’90 o inizio 2000 invece si dovrà definitivamente rassegnare alla loro metamorfosi. Rispetto agli album precedenti hanno aggiunto una marcia in più raffinando i suoni e sbizzarrendosi con un paio di effetti nuovi, ma rimanendo estremamente fedeli al loro stile inconfondibile di brutalità e pochi fronzoli. Una mezz’oretta abbondante (33.36) da ascoltare tutta d’un fiato.

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