HELMET – Aftertaste

by Manuel Demori

In attesa dell’ottavo album (al momento sembra ci stiano lavorando) dei newyorchesi Helmet facciamo una digressione fino al 1997, data in cui il loro quarto lavoro in studio intitolato “Aftertaste” venne pubblicato.

Vi chiederete come mai abbia scelto di recensire proprio questo album ed in realtà ci sono alcune motivazioni, prima di tutto è l’ultimo con membri della formazione originale (Henry Bodgan al basso e John Stanier alla batteria oltre ovviamente a Page Hamilton, leader indiscusso) ed è uscito 19 anni fa proprio in questi giorni. Speriamo facciano un tour del ventennale incentrato su quest’album, come già fatto con Betty che mi sono goduto al Bronson.

Purtroppo non ha avuto il successo che meritava, i vecchi fans storsero il naso probabilmente per via dell’abbandono delle sonorità più noise, che nei primi album erano invece predominanti, a favore di un suono più omogeneo, sicuramente meno rabbioso ma più potente, maturo e soprattutto con linee vocali più melodiche e “commerciali”. Rimangono, ovviamente, le classiche ritmiche sincopate di chitarra fattore distintivo della band ed una componente noise ma più velata e patinata. Una curiosità che forse non tutti sanno è che Page Hamilton fu costretto a registrare sia le chitarre ritmiche che le soliste perchè rimasero senza chitarrista ritmico prima della registrazione dell’album.

Credo, anzi ne sono convinto, che Aftertaste sia un album fondamentale soprattutto per le influenze che ha avuto all’interno del NuMetal, Post Metal e Alternative Metal, non a caso gli Helmet sono spesso citati tra gli ispiratori di moltissimi gruppi, sono la classica band underground che ha avuto grosse influenze sui gruppi mainstream. Mi ricordo che quando lo ascoltai per la prima volta, appunto nel 1997, rimasi affascinato come sempre per le ritmiche caratteristica che, insieme al noise, mi ha sempre fatto apprezzare gli Helmet ma questa volta c’era qualcosa di diverso, complici i suoni più rifiniti, la composizione più raffinata, insomma colsi fin da subito l’importanza che avrebbe avuto questo album e credo capii immediatamente che sarebbe stato l’apice artistico della loro carriera (un po’ come lo è stato White Pony per i Deftones giusto per fare un esempio).

Quello che stupisce di Aftertaste è la voce di Page Hamilton, da questo punto di vista in quest’album è al massimo tanto che mi son sempre chiesto se ci fosse qualche “trucco” dietro… fatto sta che, prima e dopo quest’album, non è mai riuscito ad eguagliare il livello nè in studio, tantomeno in live quindi il sospetto rimane.

Passiamo alla tracklist, “Pure” e “Renovation”, non a caso i primi due brani, danno subito l’idea di come il sound del combo newyorchese si sia evoluto, ritmiche serrate e potenti travolgono immediatamente l’ascoltatore e la voce fa da filo conduttore in un sound compatto che solo i bridge noise, sapientemente inseriti, interrompono ricordando il passato della band e trasportando l’ascoltatore in uno stadio più mentale, per poi riportarlo con i piedi per terra al momento giusto.

“Exactly wath you wanted”, “Birth defect” e “Insatiable” con una linea vocale graffiante e poco melodica ci riportano al vecchio sound degli Helmet miscelato sapientemente al nuovo per un connubio notevole e veramente azzeccato.

“Like I care” con la sua linea di basso ipnotica è uno dei pezzi più di qualità dell’album, della serie: ”Vorrei averla scritta io” diciamo che ancora oggi questo brano mi colpisce moltissimo, melodie perfette, sound perfetto, ritmica incredibile e tanta tanta atmosfera… Una song da scopata insomma, lenta, costante, potente e avvolgente.

“It’s easy to get bored” mi riporta molto al precedente album “Betty”, ha lo stesso sapore alternative inglese, un filo conduttore in più con il passato che non guasta ma non eccelle. Così come “(High) Visibility” che però è meglio amalgamata agli altri brani.

“Driving nowhere” e “Broadcast emotion” insieme a “Diet Aftertaste” sono il perfetto ponte tra i primi due brani dell’album e “Like I care” (anche se nella tracklist sono successive), altissimo livello e, come sempre in quest’album, ritornelli melodici azzeccatissimi e di gran gusto.

“Harmless” e “Crisis King” più veloci e hardcore sorprendono positivamente e ci si chiede quanti album abbiano tanta qualità e riescano a stupire fino alle ultime posizioni della tracklist.

Mirko Fioresi

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