IMPERIAL DOMAIN – The Deluge

by Luca Gazzola

Gli Imperial Domain sono un gruppo svedese nato a Uppsala nel 1994, che vedono il proprio esordio discografico nel ’97 con il primo album “In the Ashes of the Fallen”. Dopo aver sfornato un altro album e lo scioglimento del 2005, il 2014 è stato l’anno della riunione con gli inizi dei lavori su nuovo materiale. La morte del cantante Tobias von Heideman nel 2015 è stata seguita dall’ingresso di Andreas Öman, che esordisce in quest’ultimo lavoro, “The Deluge“. La voce di Öman ricorda gli Unbowed, mentre le chitarre sono particolarmente leggere per un disco melodic death metal, virando sull’heavy come sonorità. Tante parti strumentali lente, anche acustiche, in mezzo a parti più veloci completano il quadro delle chitarre, mentre basso e batteria non danno spunti interessanti. A completare il tutto ci sono orchestrazioni di stampo symphonic che accompagnano gli strumenti di maggior peso soprattutto nelle fasi lente, sena mai coprire un ruolo di primo piano. L’album è composto da otto pezzi di una durata che va dai quattro ai sei minuti, con una durata complessiva di poco più di mezz’ora.

Tra le canzoni rilevanti:

  • True Face of War“: primo pezzo dell’album. Qui come in pochi altri brani le tastiere hanno un ruolo non indifferente, raggiungendo il peso delle chitarre con un carattere symphonic metal, anche se il ritornello ricorda vagamente la colonna sonora vivace di un videogioco.
  • The Future Is Lost“: terza canzone dell’album. Pezzo particolarmente vivace con un paio di cambi ben messi, melodie di chitarre e tastiere ben incastrate, curato nella registrazione e mixaggio come il resto dell’album. Un pezzo che risalta tra gli altri che sono un po’ più noiosi.
  • Ever Since that Day“: ultimo pezzo. Contando lo pseudo-intro “Evanescent“arriva a quasi otto minuti di un brano in cui si possono riassumere i punti salienti del gruppo: melodia, suoni leggeri, voce potente, orchestrazioni non invadenti ma delicate e di accompagnamento.

Rispetto gli album precedenti, che si avvicinavano all’heavy, si è puntato un poco verso un melodic death più autentico ma comunque leggero. La sostituzione del cantante ha creato una piccola stonatura tra strumenti e voce, ma non è stata del tutto infelice. Le canzoni sono più corte e condite con orchestrazioni che prima non erano presenti. Non è una brutta cosa, contando alcune parti noiose, ma nemmeno una eccellenza nonostante gli assoli orecchiabili: un album senza infamia e senza lode.

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