JOHN GARCIA – The Coyote Who Spoke in Tongues

by Giuseppe Piscopo

Pochi artisti, dopo anni di carriera, hanno raggiunto uno status tale da rappresentare da soli un intero genere musicale. John Garcia è uno di questi: con i Kyuss, nella prima metà degli anni ’90, ha posto le fondamenta per quello che verrà definito stoner/desert rock per poi avventurarsi in una varietà di progetti e uscite più o meno di successo, che hanno come culmine il disco che ci troviamo ad ascoltare oggi.

Il secondo album a portare lo stesso nome dell’artista si intitola “The Coyote Who Spoke in Tongues“, album in cui i rimandi al passato sono tanti e significativi, primi fra tutti titolo e copertina che richiamano il vecchio progetto Unida e l’unico album partorito da esso, “Coping with the Urban Coyote”.
Diciotto anni dopo, il Coyote cambia veste e da urbano diventa qualcosa di intimo, che ci parla in lingue inusuali se paragonato a quanto prodotto in passato, essendo il disco in questione totalmente acustico.
Continuando il suo viaggio nel tempo, il coyote ci propone delle vecchie conoscenze (e che conoscenze!) rivisitando capisaldi della discografia Kyuss-iana come “Green Machine“, “Space Cadet” e “Gardenia“, oltre a “El Rodeo“, presente sull’ultima fatica discografica dello storico gruppo. Queste vengono decisamente stravolte (a parte la seconda che già di suo si presta ad arrangiamenti simili) ed assumono dei connotati completamente nuovi, riuscendo a convincere anche in questa veste. Le composizioni inedite si rivelano altrettanto valide, con un occhio di riguardo nei confronti della malinconica “Argleben II” (anche qui un richiamo al passato più recente dell’artista) e della traccia conclusiva, la strumentale “Court Order“, in cui l’iconica voce viene tenuta a riposo dopo una performance come al solito su alti livelli. L’unico brano che si rivela leggermente sottotono è “The Hollingsworth Session“, ma è un neo che si accetta volentieri se inserito nel contesto qui presente.

Il Coyote di San Manuel spiazza quindi il pubblico con questa virata stilistica (intuibile dalle recenti esibizioni dal vivo) che costituisce un passo avanti rispetto al disco omonimo di tre anni fa. Se i rimandi al passato siano frutto di un’operazione volutamente rivolta ai vecchi fan non ci è dato saperlo, ma visti i risultati siamo ben contenti di sentir vibrare le nostre corde nostalgiche.

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