RISE OF AVERNUS – Eigengrau

by Leonardo Cervio

Eigengrau: termine tedesco traducibile con “intrinsicamente grigio”, sta a indicare il grigio di fondo percepito dalla vista quando gli occhi sono immersi nella oscurità totale.

Coniato già nel diciannovesimo secolo ma tornato in voga solo ultimamente in tema scientifico, il termine “Eigengrau” si presta facilmente a varie interpretazioni di carattere psichico e psicologico: su in questa tela dal colore grigiastro, che ricopre velatamente l’oscurità più profonda (simboleggiante metaforicamente la morte),  l’individuo può proiettare le sue ansie, le sue paure, il suo subconscio, il suo Io più puro. Una sorta di premonizione/proiezione di ciò che c’è al di là di quella soglia che separa l’Io dal corpo, e che gli permette di esprimersi senza restrizioni.

Di certo i Rise of Avernus non hanno scelto un argomento banale per ritornare sulle scene dopo due anni di silenzio: l’EP “Dramatis Personae” era atteso con una certa curiosità dopo l’abbandono della cantante Cat Guirguis, che tanto aveva ben figurato nell’album di debutto della band “L’appel du Vide”, e i risultati erano stati inferiori alle aspettative. La band aveva intelligentemente optato per un più contenuto EP rispetto a un album vero e proprio, dato lo scossone di line-up, e ha colto la palla al balzo per virare verso un nuovo sound: messo parzialmente da parte il gothic degli esordi (probabilmente per via della dipartita di Cat), la band si è cimentata in territori più estremi, abbinando a una sempre maggiore componente orchestrale e death il doom dell’album di debutto. Il risultato è stato un disco suonato decisamente bene, senza però guizzi degni di nota come ci si aspetterebbe da una band che ha dimostrato di avere ottime potenzialità, e soprattutto con l’ombra incombente dei Septicflesh, i padri del symphonic death. Lo step successivo, con questo secondo album, è dimostrare di avere imparato la lezione, di avere appreso dai maestri ma di essere in grado di percorrere una strada personale, arricchendo la ricetta con ingredienti nuovi per non rischiare di capitolare nel minestrone generale di quel nutrito sottobosco del gothic/doom/death.

L’opener “Terminus” ci indirizza sui binari giusti: i primi due minuti rappresentano una e vera propria intro, per preparare il terreno alla canzone vera e propria. A dominare in questa canzone sono i cambi di tempo, ed è solo un anticipazione di ciò che ci aspetta lungo tutto l’album: in buona parte delle canzoni (specie in quelle dal minutaggio più elevato) i saliscendi si susseguono come delle montagne russe, a simboleggiare la fluidità e la variabilità delle trasposizioni del proprio Io sull’Eigengrau, che viene modificato e viene plasmato in base alla nostra percezione di ciò che ci circonda. I Nostri, sapientemente, non ripropongono questi cambi in continuazione, perché il rischio di ripetizioni e di slegarli l’uno dall’altro è altissimo in questi casi: qui risultano dosati e miscelati tra loro, tanto che molto spesso la band predilige prepararli con degli intermezzi strumentali o con delle parti in costante crescendo. L’esempio lampante di questa ottima scelta è “Eigenlicht“, probabilmente la miglior canzone scritta dai Rise of Avernus: dopo un’introduzione con delle dolci chitarre, le stesse ci travolgono con un assalto dalle venature prog death, a conferma di come non si limitino a copiare e riassemblare gli stilemi del symphonic death. Ma tutta la canzone è un ottovolante: all’incidere pesante delle strofe si contrappone l’arrembante andatura del ritornello. La struttura strofa/ritornello viene interrotta da un intermezzo strumentale in cui a fare da padrone è il pianoforte, vero asso nella manica in questo album, che ci prepara a varcare le porte dell’Inferno, con un finale dalle tinte symphonic black. Da segnalare la magistrale del cantante Ben Vanvollenhoven, che si districa benissimo tra il growl e lo scream lungo tutta la suite.

Se “Eigenlicht” spicca così tanto, è anche per merito della traccia precedente, “Gehenna“, i cui primi minuti sono un manifesto del saliscendi dell’Eigengrau: intro tribale-progressiva accelerazione-stacco di pianoforte. In questa traccia l’influenza doom è più marcatamente presente, ma i Nostri ci stupiscono ancora tirando fuori dal cilindro un’incursione nei territori black metal dopo un apparente momento di quiete, guidato ancora una volta dal pianoforte, che fa capolino nelle tracce dal minutaggio più elevato. Non reclama moltissimo spazio, ma quello che gli si offre lo gestisce e lo sfrutta magnificamente: viene un po’ abusato come apripista per la sfuriata finale, ma sa regalare momenti dall’alto tasso emozionale, come nella già citata “Eigenlicht” e nella conclusiva “Into Aetherium, dove precede una delle parti meglio congegnate dell’album, dove tutti gli strumenti e la voce di Vanvollenhoven si amalgamano alla perfezione. L’altro episodio sopra la media è “Forged In Eidolon“, traccia dove l’orchestra occupa un ruolo di primo piano e i violini accompagnano le chitarre, amplificandone la potenza e la violenza.

A essere un saliscendi continuo non è solo la struttura delle canzoni, ma anche il livello dell’album: ai cinque episodi citati sopra, di alto livello (altissimo nel caso di “Eigenlicht“), ve ne si affiancano tre che al cospetto degli altri si posizionano qualche spanna sotto. Se “Tempest” ha la sfortuna di posizionarsi dopo il colosso dell’album e inevitabilmente ne viene appannata, nonostante non presenti nessun difetto degno di nota essendo una canonica traccia symphonic death, “Ad Infinitum” e “Mimicry” lasciano in bocca (o nell’orecchio) un retrogusto di occasione mancata. La prima è anch’essa una canonica traccia melodic death, fino al finale dove gli strumenti si uniscono in un crescendo armonioso… che viene bruscamente stoppato, lasciandoci in attesa di un’esplosione sonora che non verrà mai innescata. “Mimicry“, invece, si presenta come la traccia dalle tinte più oscure e dark dell’album, e per l’occasione Vanvollenhoven utilizza un timbro più basso, ad accrescere l’alone di oscurità intorno all’Eigengrau. Purtroppo per noi la canzone dura troppo poco, non riesce a trasmettere tutta la sua potenziale malignità e ci si ritrova con delle buone idee, ma messe un po’ alla rinfusa.

Tirando le somme, “Eigengrau” ci restituisce una band che ha saputo subito rialzarsi dal passo falso rappresentato da “Dramatis Personae”, confezionando un album dalla tinte più oscure dei predecessori ma anche più personale: il lavoro svolto dalla band in fase di produzione e composizione è evidente e sono stati fatti ottimi passi in avanti. Menzione d’onore per i testi delle canzoni, molto intimi e personali, che indagano a fondo il subconscio umano, troppo spesso plasmato e reso schiavo di costrizioni esterne e impossibilitato ad esprimersi appieno. I Rise Of Avernus hanno disegnato il loro mondo personale sull’Eigengrau, su quella tela che solo all’apparenza sembra di un grigio monocromatico, impersonale: sarete voi capaci di districarvi nel loro saliscendi musicale?

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